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Termini: Storia di una stazione

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La fretta e il tempo che scappa non invitano a fermarsi. Ma la storia della prima (vera) stazione di Roma meriterebbe un po' di calma e magari anche di perdere un treno. Scopri la Stazione Termini con Gaia

C’è un anno di nascita: è il 1862, quando a Roma il via vai di treni era piccola cosa e la capitale era ancora Stato Pontificio, quindi chi si muoveva da qui lo faceva per rimanere nei confini, spostandosi di poco verso i paesi dei dintorni.
Ma già qualcosa non quadrava e la vicina Unità avrebbe ulteriormente sparigliato i conti. 

Anno 1867. La stazione “di prima” era quasi un prefabbricato ricavato fra i ruderi delle Terme di Diocleziano, un boccone di Mura Serviane e il cantiere della vecchia villa (fuori porta) di Sisto v, acquistata dai nobili Massimo sul finire del ’700 e ora in via di trasformazione in Palazzo Massimo, dove oggi c’è uno splendido museo archeologico.
 
La cara vecchia Piazza dei Cinquecento, poi, neanche si chiamava così, ma aveva un nome assai più letterale: piazza Termini, per via delle terme e di un’antica cisterna che le riforniva d’acqua. Quel nome-numero se l’è preso nel 1888, in memoria dei cinquecento soldati italiani morti a Dogali. Tutto intorno, inoltre, non c’era il balletto solito di macchine su Via Cavour e Via Giolitti, né quello di Via Marsala, vie che sono arrivate più tardi (come si nota dalla toponomastica), occupando terreni che una volta erano horti, cioè residenze di campagna, come quella di Mecenate, proprio sopra al Rione Monti. Terreni strani, infestati da fantasmi, si diceva. 

La struttura della stazione era anch’essa poca cosa. Quasi una baracca con quattro binari pidocchiosi, ma con un’allure da Belle epoque e treni a vapore. Il tutto fu così appunto fino al 1867, quando il papa si rese conto che i tempi cambiavano e anche lo Stato Pontificio (che sarebbe dovuto essere eterno come la sua capitale) si stava sfaldando non solo per le botte dei ribelli del Risorgimento, ma anche per la vita che accelera e per la gente che voleva viaggiare. 

Così è nata Termini. È nata sotto gli auspici di un papa, all’alba di un’epoca di grandi cambiamenti, nel momento migliore (e con il giusto anticipo che devono avere questi affari lunghi da progettare e da costruire) per tenere unito un paese neonato. Unito nella ghisa e nei vagoni. Unito nei fischi e nei lavoratori che facevano andare i treni. 

A chi ha visto qualche foto dell’epoca la stazione di Roma deve essere sembrata un’inezia. Niente al confronto con gli edifici di oggi, finalmente liberati dal degrado (a gennaio 2000 l’inaugurazione del centro commerciale interno), rispettosi delle forme razionaliste che gli aveva concesso Angiolo Mazzoni già nel 1939 e di quelle definitive, figlie del dopoguerra. 

Eccola oggi, bianca e trafficata, arricchita da un nugolo di negozi sotterranei che potrebbe far perdere il treno a chiunque: una libreria di tre piani, mega-store, bar, ristoranti. Alla stazione ora si trova di tutto, uomini e merci, treni (per forza!) e valigie, borseggiatori e gente di passaggio. 

Così, sulla carta, Termini potrebbe sembrare un grande affronto alle forme della città che vive da sempre nei suoi dintorni. Con quel bianco sparato e le linee essenziali, sembra un gran coleottero albino sdraiato sotto il sole. Invece Mazzoni l’aveva pensata come un’opera in continuità con tutto il resto. E il “resto” più importante era il tufo delle Mura Serviane che ancora oggi si incontrano su piazza dei Cinquecento e, come “mozziconi”, nei sottopassi affollati di gente che va di fretta.

Se quando sentirete parlare della stazione vi verrà nominata la parola “dinosauro” non inorridite: non ci sono Tirannosaurus Rex nel pur prolifico sottosuolo romano, né è un modo di prendere in giro il suo aspetto gigantesco e placido. In realtà è proprio un indizio per scovare la continuità di cui si parlava poco fa: il soffitto dell’atrio è completamente rivestito di tessere bianche di marmo, come delle scaglie, un accenno alla texture delle Mura Serviane e un omaggio all’opus dei muri di Roma. 

Merita un po’ più d’attenzione lo spazio della stazione. Fra una vetrina e l’altra bisognerebbe fare la conta di ciò che è rimasto e di quello che è cambiato. 

Magari ci si può anche riscoprire attratti da un vecchio pezzo di ferro rimasto là dal tempo dei tempi, o da una parte delle architetture di Mazzoni. Basterebbe alzare gli occhi al cielo, una volta ogni tanto, fra un’accelerata e uno scatto, fra una camminata e la corsetta che tutti i viaggiatori accennano pure se sono in perfetto orario.
Anche i dintorni meriterebbero un occhio più curioso. Due i musei che si incaricano di dare il benvenuto a quei pochi turisti che ancora arrivano in una stazione dei treni, disdegnando l’areoporto: Palazzo Massimo e il Museo delle Terme di Diocleziano, preziosi distaccamenti del Museo Nazionale Romano.

Il primo custodisce una schiera di ritratti di uomini e donne nelle varie epoche dell’impero, collezioni numismatiche, corredi funebri, gli affreschi della Villa di Livia e la mummia di una bimba romana (patrizia), morta di malattia e sepolta sotto metri e metri di detriti. 

Il museo delle Terme è invece, come dice il nome stesso, un viaggio nella struttura costruita da Diocleziano alla fine del III secolo dopo Cristo e, allo stesso tempo, un tuffo nella Roma post-unitaria, governata dai piemontesi che vollero anche loro “farsi” un museo che fosse all’altezza dei Musei capitolini (istituiti da un papa) e di quelli vaticani (a casa dei papi). 

Poi ci sono le strade, ovviamente. I colori, il movimento di mille culture, le contraddizioni, le miserie e le bellezze di una metropoli caotica e antica, i traffici e i commerci, il bene e il male sotto il grande cielo di Roma. Ma questa è un’altra storia (che i treni conoscono bene).





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