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Ristoranti. La Ricetta della Carbonara. Misteriosa come il calendario Maya

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Il piatto più rappresentativo della gastronomia romanesca custodisce ancora il segreto delle sue origini. È napoletana? È burina, o addirittura americana? Scopritela con Gaia in un approfondimento che sa di guanciale, uovo, pecorino e storia!

Il sospetto è forte. A Roma potrebbe non essere il Colosseo l’unica ragione per cui, ogni anno a milioni, fra italiani e stranieri, scelgono la capitale come meta delle loro vacanze brevi o lunghe. Il sospetto è forte, dicevamo, perché tutte le volte che nomini la parolina magica – carbonara – a un non romano, immediatamente gli vedi gli occhi brillare di genuina commozione e il petto alzarsi in un sospiro da innamorato. La carbonara è buona. È anche grassa, bisunta e pesante. Ma è il cibo degli dei. E – vegetariani esclusi – riesce a cambiare il tono di una giornata sfigata con un colpo di forchetta. 

Eppure basta indagare appena un po’ in profondità e domandare a quel non romano di cui sopra se ne conosce la ricetta ed ecco che i primi nodi vengono al pettine. Ma voi l’avete mai mangiata una carbonara come si deve a Milano? 

E com’è la carbonara “come si deve”, come si fa? Chi ne conosce davvero in profondità tutti i segreti per poterli poi divulgare facendo tacere, finalmente, le mille ricette “apocrife” che si spacciano per le uniche e sole carbonare de verdad?

Certo, qualunque cittadino di Roma asserirà di possedere la ricetta vera, verissima che più tradizionale e genuina non si può. Ma come fare a distinguere gli sbruffoni dai veri depositari di questa perla di saggezza nonché delizia gastronomica? Basta assicurarsi che nella ricetta che vi verrà raccontata alcuni elementi NON siano presenti. 

1) Il vostro amico del cuore che vanta almeno sette generazioni di parenti residenti stabilmente in Trastevere aggiunge latte e/o panna all’uovo? È uno sbruffone (e verificate anche l’effettiva presenza della sua famiglia nel rione appena citato perché, a questo punto, potrebbe essere una menzogna).

2) Mette l’aglio nella pancetta? È uno sbruffone.

3) Fa mantecare il condimento fino a determinare il fenomeno conosciuto dagli scienziati del Cern di Ginevra con il nome di “carbonara alla cantonese”? È uno sbruffone.

4) Giura che ci va assolutamente la cipolla? Non è uno sbruffone, ma si muove ai limiti dell’ortodossia e quindi è un soggetto potenzialmente pericoloso.

5) Non conosce la storia e le origini del piatto in tutte le sue versioni (sono circa quattro)? È uno sbruffone.

6) Non conosce la differenza fra carbonara, gricia e papalina? È uno sbruffone cui dovreste togliere il saluto.

Insomma, come si fa, che storia ha e che differenza c’è fra carbonara, gricia e papalina?
Se il dilemma vi toglie il sonno, se non riuscite più a guardarvi allo specchio e se passate le giornate fissando un uovo nella speranza che la risposta vi giunga dal tuorlo o dall’albume (con una vaga eco perché la voce proviene da dentro il guscio), forse è il caso di proseguire nella lettura. Perché chi scrive ha fatto delle ricerche, si è informata e adesso è in grado quanto meno di riportare “lo stato delle arti”, cioè tutte le voci possibili che girano o sono girate in merito al piatto più buono e misterioso della gastronomia romanesca (con buona pace dei fan sfegatati dell’amatriciana, a loro intanto rimane il problema di stabilire se il loro piatto preferito si scrive amatriciana o matriciana... Ma questa è un’altra storia ancora).

Cominciamo con le origini. Perché per fare il punto e arrivare all’omega di questo racconto bisognerà partire dall’alfa.

Sul web, fonte praticamente inesauribile di dibattiti sul sesso degli angeli e quindi anche sulla storia della carbonara, circolano quattro versioni ugualmente suffragate da fonti e quindi più o meno attendibili. 

Prima versione. La carbonara è, senza ombra di dubbio, originaria del Napoletano. La fonte è un libro edito e scritto da un aristocratico: Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino. Quindi la carbonara non è laziale né tanto meno romana. Non è la base fondante della pancia della Città Eterna, come il solco primigenio tracciato da Romolo lo è delle mura di cinta della capitale. È piuttosto una storpiatura di una ricetta campana. Desolé, mi dispiace. Addio, anzi adieu. E invece no. Perché il libro di Cavalcanti parla chiaramente di un “timpano” (cioè uno sformato) di maccheroni in cui l’uovo compare sì, ma solo come legante ed è infinitamente più cotto di come deve essere sul nostro amato piatto. Tutto il contrario di quella cremina vellutata che fa della carbonara il cibo, mi ripeto, degli dei.

Andiamo avanti.

Seconda versione. La carbonara, così come dice il nome, nasce dai carbonai che venivano nella capitale stagionalmente portando con loro il cibo da casa. Un cibo povero, a base di uova e formaggio (pecorino) e carne essiccata (guanciale o pancetta? Un altro dilemma). Qualcuno pensò bene di metterli su un piatto di pasta e il gioco fu fatto. Vi convince? A noi poco.

Terza versione. La carbonara si chiama carbonara perché l’oste che l’ha inventata nell’Ottocento era un simpatizzante della Carboneria, cioè quel movimento che ha avuto tantissima parte nel Risorgimento italiano. Facile, facile. Infatti, troppo facile. 

Quarta e ultima versione (la più dura da mandar giù). È il 1945, le truppe alleate sono entrate a Roma, la guerra è finita. Nell’estrema indigenza in cui il mondo si è trovato precipitato dopo un conflitto mondiale, è la fantasia l’unica arma possibile per andare avanti. Qualche soldato con un’incredibile nostalgia di casa intenerisce un oste che decide di mescolare il breakfast con la pasta. Eggs and bacon (il bacon è la pancetta affumicata), spaghetti o rigatoni. E la carbonara è fatta. Può un mischione americano (o amerikano che dir si voglia) essere alla base della nascita di una star della gastronomia romanesca?

Qualcuno potrebbe preferire la morte. E sarebbe comprensibile. 

E questo è quanto.

Ce ne vorrebbe una quinta: la carbonara in realtà è una ricetta aliena piovuta sulla Terra quando i marziani camminavano fra noi e si riparavano sotto i sassi di Stonehenge. Questi alieni avevano una caratteristica: indossavano canotte bianche chiazzate di sugo e si chiamavano tutti Spartaco, Sergetto e Cesare. 

Sarebbe bello ma non ho pezze d’appoggio per sostenere questa tesi.
Alieni a parte, c’è solo un elemento in più che può aiutare a comprendere meglio il nome. Carbonai e carbonari risorgimentali a parte, pare che il termine carbonara vada associato alla presenza del pepe che, come il carbone, appunto, dovrebbe formare uno strato notevole sul piatto prima di servirlo in tavola (ben caldo).

E non è finita qui.

Spaghetti o rigatoni?
Il non plus ultra della tradizione vorrebbe i rigatoni, ma anche gli spaghetti vanno bene. Tutto il resto (gnocchi, fettuccine, tagliolini vari) sono variazioni, anche buone, sul tema, ma in ogni caso qui non vanno neanche prese in considerazione. 

Pancetta o guanciale?
C’è chi giura che il guanciale è buono soltanto per la gricia (senza uovo) o per l’amatriciana (col sugo). Chi invece giura ancora più forte che la vera carbonara vuole il guanciale e schifa la pancetta. Chi infine mette tutti e due, la pancetta da far abbrustolire per conferire un po’ di croccantezza al piatto e il guanciale per quel sapore di grasso fuso che piace sempre. All’inventore di questa mediazione dovrebbero dare il Nobel per la pace e dovrebbero lasciargli trattare dei nuovi accordi internazionali fra Israeliani e Palestinesi.

Pecorino o parmigiano?
Il pecorino, più saporito e decisamente locale, è il formaggio dell’ortodossia. Ma anche in questo caso, qualcuno ama mischiarli sulla carbonara perfetta. E la carbonara con il mix pecorino-parmigiano diventa davvero perfetta.

Ma quante uova ci vogliono?
Si dice un tuorlo per commensale e un uovo intero per la pentola, quindi se si fa per due servono praticamente tre uova. 

La cremina della carbonara. Come si fa?
L’abbiamo già detto: chi ci mette il latte o la panna meriterebbe il carcere duro, tipo 41bis. Chi la manteca sui fornelli fino a cuocere l’uovo come una frittatina, o un riso alla cantonese, pure. Come si fa la cremina allora? Un amico chef consiglia di aggiungere un cucchiaio (non di più) di acqua di cottura della pasta all’uovo sbattuto, poco prima di scolare. L’amido della pasta fa da collante e permette al condimento di attaccarsi allo spaghetto o al rigatone e in più scioglie il parmigiano e/o il pecorino che è già stato messo dentro l’uovo. Così diventa cremosa sul serio senza inganni. La mantecatura è un optional. Si può, ma senza esagerare.

E ora un po’ di definizioni rapide per annichilire l’amico (finto) di Trastevere (quello che non conosce la differenza fra le varie gricia, carbonara e papalina) prima di dirgli addio per sempre.
 
La gricia
L’abbiamo detto. È come una carbonara ma senza uovo. Col pecorino. E con il guanciale.

La carbonara
Ne abbiamo parlato fino ad ora. C’è davvero bisogno di aggiungere qualcos’altro?

La papalina
È una ricetta recente. Inventata dal cuoco di papa Pacelli (Pio XII). Pare che al fegato del pontefice proprio non andasse giù la ruvida consistenza della carbonara tradizionale. E per ovviare ai fastidi di un primo piatto che per essere digerito, come minimo, richiede una pennichella da un paio d’ore si fece preparare una variazione che è poi passata alla storia: uovo sì, pancetta no, pecorino no.
La papalina si fa con il prosciutto al posto della pancetta o del guanciale e con il parmigiano al posto del pecorino. Il tutto è un velo più digeribile, pur rimanendo saporito. C’è chi aggiunge anche i piselli. In questo caso ogni aggiunta o variazione dovrebbe essere accettata, visto che la ricetta originale è già stata oggetto di sacrilegio e per giunta da parte di un papa. Imperdonabile. 





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