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Rebibbia: Oltre il Carcere, alla Scoperta di una Tiburtina di Campagna

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Il nome viene da una delle torri di guardia che punteggiavano il paesaggio della capitale fin dal Medioevo. Oggi è inglobata in un casale e si nota poco ed è forse per quello che tutti associano il quartiere sempre e solo al carcere, che pure c'è (e si vede), ma non è l'unica cosa che conta qui, dove la Tiburtina si perde nei campi. Scopri Rebibbia con Gaia!

È difficile visitarlo questo quartiere disteso sulla Tiburtina. Difficile perché come si fa a prescindere dal carcere? Certo, quelli che qui sono nati ti dicono che il nome della zone deriva in realtà dalla torre medievale e non "dar gabbio", che però c'è e, per chi viene da fuori, sembra una realtà imprescindibile e insuperabile. 


Rebibbia poi è una specie di "periferia" della detenzione. Se Regina Coeli è la "Reggina", cioè la sovrana delle galere capitoline, protetta addirittura dalla Sovrintendenza perché parte della memoria cittadina con il suo carico di sospiri, attese, sangue e canzoni rabbiose gridate al cielo trasteverino. Rebibbia è invece il carcere "nuovo". Superaffollato, triste, isolato dal mondo. È periferia appunto. Periferia di una città che si contrae vicino alle sue Mura, si accalca e poi, qui, si scioglie improvvisamente in un'alternanza continua di mini-quartieri e poi campagna, grandi magazzini per la vendita all'ingrosso e palazzoni di uffici vetro e acciaio. 

Per venire da queste parti bisogna organizzarsi con la macchina e avere voglia di tuffarsi in una Roma senza bellezze particolari. O meglio, in una Roma la cui bellezza rientra più che altro nella categoria del sublime. 

È sublime quando il traffico urlante improvvisamente si perde su una strada stretta fra i campi; è sublime la città che - quando meno te l'aspetti - ti piomba nel suo passato agreste.

Una volta Roma finiva prima del carcere e subito dopo la svolta per entrare a San Basilio. La Tiburtina, a quel punto, non era tanto diversa dall'Ottocento o, chissà, dal Medioevo dei barbari alle porte e dei campi incolti.
In un racconto meraviglioso, lo scrittore Edoardo Albinati descrive così la zona: "Da queste parti la città è a macchia di leopardo. Frantumata. S'interrompe e poi riparte di scatto con un'andatura tutta diversa". 

Ecco, è questo lo spirito adatto per farsi turbare dal "fascino" strano di Rebibbia. Gustarsi le variazioni, apprezzare i cambiamenti e godere delle piccole cose che punteggiano l'abbandono: un rudere, un podere diroccato, un'iscrizione che miracolosamente si è salvata dalla cementificazione. 

Basta un passaggio veloce, una coda automobilistica "impiegata" in modo più fruttuoso del solito dedicandosi alla sacra arte dell'osservazione. E quella bellezza sublime viene fuori quasi alla chetichella, piano piano entra nell'abitacolo della macchina e trascina l'osservatore in un mondo speciale in cui le sbarre del carcere sono solo un ricordo e contano solo le contrazioni della periferia della capitale: palazzi e campi, presente e passato. Frizione, prima, frizione, freno. Un centimetro dietro l'altro, un pensiero dietro l'altro.

Anche la toponomastica aiuta nelle riflessioni. La zona è dedicata ai filosofi: via Kant, via Marx, via Schopenhauer, come in un incoraggiamento a usare la testa senza farsi spaventare dai marciapiedi scarni, dai muraglioni alti della prigione, dal groviglio di macchine che strozza la Tiburtina da sempre e in qualsiasi orario su questo tratto.
Per apprezzare Rebibbia bisogna respirare secondo il suo ritmo, lasciarsi andare. Far lavorare quel suo lato frantumato e sublime. Che poi è anche l'unica cosa che ci salverà dal traffico infernale.





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