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Il rione in cui i romani non volevano andare

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inserito il 29/01/2011

Il penultimo rione di Roma (l'ultimo è Garbatella) è nato poco dopo l'Unità d'Italia - ironia della sorte - a due passi dal Vaticano, per accogliere i funzionari del nuovo governo laico. Viali larghi e alberati e palazzine "moderne" tradiscono il suo originario spirito ribelle, anche se oggi è il quartiere della buona borghesia

È difficile immaginare dove siano andati a finire i famosi prati che questo quartierone signorile si porta impressi nel nome di battesimo oggi che è unanimemente riconosciuto come la zona degli avvocati, dei notai, della rai, dei grandi viali ordinati e puliti. Prati è un rione (quindi considerato una zona del centro storico) con il sogno di diventare quartiere, perché nonostante l’aspetto polveroso dell’edilizia umbertina e liberty, fra le sue vie e nei suoi cortiloni si avverte un’aspirazione alla modernità, alla discrezione e alla signorilità che manca nel dna dei vicoli del centro, caratteristica che, però, li rende anche luoghi magici e affollati, incasinati e umani allo stesso tempo.
Eppure proprio quel nome di battesimo ci ricorda le sue origini umili, la sua nascita “necessaria” e un passato un po’ malsano. Perché i Prati di Castello (e il castello è la Mole Adriana o Castel Sant’Angelo) erano un vasto appezzamento paludoso dove si andava a cacciare e dove il fiume scorazzava libero e selvaggio in uno sfogatoio di acquitrini, argilla, capanne e piante che gli facevano perdere la voglia di inondare Roma.
Fra i prati, il castello e il fiume, poi, c’erano anche i romani. E infatti in qualsiasi storia che riguardi questa città non bisogna mai dimenticarli, visto che l’ostacolo più grande alla nascita di Prati lo misero loro che non se la sentivano di lasciare la riva sinistra per quella destra e, di conseguenza, di “passà ponte”, cosa che per altro a Roma faceva giusto il boia Mastro Titta prima di ammazzare qualcuno (ma dalla riva destra alla riva sinistra) e i diseredati che andavano a dormire a Trastevere (stavolta dalla riva sinistra alla riva destra). Insomma, non c’era verso.
Quando il papa smise di essere re, pertanto, ai nuovi amministratori della capitale (anno domini 1880) si presentò il dilemma di doversi espandere, di dare casa a tutti i funzionari del neonato Regno e di fare affari, come sempre, perché Roma doveva essergli sembrata la pignatta degli gnomi piena di monete d’oro, quella che sta alla fine dell’arcobaleno.
Per alleviare le superstizioni del suo popolo sovrano, quindi, gli amministratori piemontesi e gli urbanisti si organizzarono costruendo una passerella di ferro sul Tevere, all’altezza del vecchio porto di Ripetta, in sostituzione dei barchini dei cacciatori che tagliavano il fiume nel senso della larghezza solo per andare a sparare le lepri. Per inciso, su quella passerella, che poi ha lasciato il posto a un più nobile Ponte Cavour, dieci anni dopo il 1880, Rosa Angeloni fu precipitata nelle acque sottostanti da suo marito Angelo Formigli e da allora una schiera di suicidi decise di farla finita proprio lì, sicuramente anche per fare un dispetto ai piemontesi.
Ma in realtà, ciò che davvero vinse definitivamente le resistenze dei romani (ma quelli della classe media e impiegatizia) verso i villini di Prati fu la promessa di una vita meno ingolfata, un po’ più dignitosa, in un contesto urbano di nuova costruzione immerso nel verde. Il che ci fa immediatamente pensare agli annunci delle case di adesso: le promesse sono le stesse.
Nel frattempo, comunque, già era stato previsto l’arrivo di grandi complessi amministrativi: le caserme, un teatro (sempre per invogliare i romani a passare ponte) e nel 1888 cominci�� la costruzione del grande Palazzo di Giustizia che poi a Roma si chiama Palazzaccio, un po’ perché nel cuore di ogni romano c’è un malandrino e un po’ perché il terreno dei Prati di Castello è alluvionale e quel palazzone gigantesco rischia di sprofondare a ogni piè sospinto.
Insomma, dissesto idrogeologico a parte, Prati nasceva già con la voglia di diventare un quartiere moderno in una metropoli europea dove si andava a teatro, si portavano a termine opere ingegneristiche, il fiume non era più un problema e i crimini erano subito repressi e giudicati (Tevere permettendo). Aspirazione radicalmente rivoluzionaria nella Roma post-unitaria che fino al giorno prima della Breccia di Porta Pia viveva praticamente ancora nel Medioevo e nel feudalesimo. Ed è infatti al sottile spirito ribelle di rione Prati cui bisogna rivolgere un pensiero in queste ultime righe.
Nelle sue strade più antiche, quelle partorite subito dopo il 1870, non c’è mai la possibilità di vedere la cupola della basilica di San Pietro che pure è a due passi. Finezza urbanistica che poteva capitare qui e in nessun altro rione della capitale. Qui dove le strade erano ampie, le case grandi e c’era tanto verde in cui sentirsi moderni e un po’ stranieri.


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Ilaria
Beltramme

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