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Ghetto: Roma "vera"

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La toponomastica ufficiale ci riporta a un resto archeologico di epoca imperiale: Portico d'Ottavia. Ma questa porzione di Roma ha anche un nome che rievoca ricordi molto più dolorosi e recenti. Eppure fra i suoi vicoli si passeggia sapendo di essere in presenza di Roma "vera". Scopri il Ghetto con Gaia.

Siamo abituati a chiamare questa porzione di centro storico affacciata su lungotevere de’ Cenci con il suo nome (infame) cinquecentesco. Il Ghetto di Roma. Il “serraglio delli Hebrei” come lo definì il papa (papa Paolo IV Carafa) che lo fondò nel 1555. Eppure, a guardare la splendida faccia corrosa dai millenni del Portico d’Ottavia, si capisce subito che la storia del Ghetto si confonde con quella della capitale nei suoi secoli più gloriosi. E non è sempre una storia infame, appunto, né per forza triste. 

Qualcuno sa che tipo di attività si conduceva fra le pietre consumate del portico?

Quello era il mercato del pesce della città, strettamente collegato al vecchio Foro Olitorio (cioè il mercato della verdura e delle granaglie), che un tempo si teneva nella vicina zona del Velabro, sotto le rocce tufacee del colle del Campidoglio. Di quell’epoca lontana (il mercato del pesce fu smantellato dopo il Ghetto, alla fine dell’Ottocento) rimane pochissimo, qualche targa fiscale ai Musei capitolini e gli acquerelli di un tedesco (Ettore Roesler Franz) che passò in rassegna tutti i luoghi di Roma prossimi all’estinzione e li immortalò in una serie di dipinti giustamente raccolti in una collezione dal titolo eloquente di “Roma sparita”. 

È fra questi acquerelli leggiadri (parte integrante del patrimonio del Museo di Roma InTrastevere) che si scopre il vecchio volto del Ghetto e che si può lentamente sostituire lo sdegno di un rione costruito per rinchiudere esseri umani a un’immagine di pace e vita quotidiana, di vita spicciola, sì, ma verace. 

Altrimenti, se Roesler Franz non fosse sufficiente come fonte, si potrebbe anche solo passeggiare lentamente fra le strade che si intrecciano al vecchio Portico. Indugiare fra le botteghe, passare sotto i ruderi che fiancheggiano il dehors di un ristorante famoso, infilarsi in ogni vicolo in cui la luce sembra non voler stazionare per più di dieci minuti al giorno. Roma allora apparirebbe come deve apparire. Cioè onesta, trasparente e bellissima, in un’istantanea che sveli i suoi millenni senza tralasciare nulla, un unisono particolarmente armonico, un miracolo estetico: che poi non è che il trucco per ammirare veramente la città. 

Al Ghetto ci sono una sinagoga, le rovine di un portico prestigioso, chiese cattoliche sul limitare di un confine ideale, palazzi dalle decorazioni bizzarre, ristoranti e piazze, gente seduta lungo la strada, attività che per un momento sembrano far rivivere una Roma appannata dallo scorrere degli ultimi anni. È un carosello di secoli, una “lavatrice” di sensazioni in cui è piacevole farsi sballottare, fra una targa che ricorda il rastrellamento tedesco del 1943 e il profilo del Teatro Marcello (il figlio di Ottavia, sorella di Augusto e – per la cronaca – un suo probabile successore se non fosse stato ucciso da una congiura di palazzo) da cui poi Baldassarre Peruzzi ricavò Palazzo Savelli. C’è la storia della città raccolta in poche centinaia di metri, distesa sotto il sole più bello e rinfrescata dalla brezza che arriva dal Tevere poco più in là. 

Per questo il Ghetto è Roma “vera”. Perché, una volta lì, sembrerà più semplice abbracciare il denso scorrere del tempo nella Città Eterna. Sfiorare l’eternità, appunto. Guardarla senza averne paura.





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